Sloveni al confino

 

di Peter Verc (giornalista e docente di lingua slovena, nipote del confinato Roman Pahor)

Sembrerà strano, eppure il periodo in cui Ponza fu luogo di confino fascista, può farci scoprire la varietà linguistica e culturale del nostro Paese. Si tratta di un aspetto non marginale nella storia e nel presente d’Italia, considerando che i padri costituenti ne tennero conto nella stesura dei principi fondamentali della Costituzione.

L'Italia è sempre stata un paese culturalmente e linguisticamente variegato, in cui molti dei suoi abitanti, oltre all'italiano e al dialetto, parlano anche altri idiomi. In alcune zone, perciò, è previsto per legge che la vita pubblica si svolga in due o più lingue. Nei consigli regionali e provinciali, nei comuni, nelle scuole, nella sanità, nelle associazioni e in altre istituzioni si usa oltre all'italiano, anche un'altra lingua, ad esempio il tedesco nella Provincia di Bolzano, il francese in Valle d’Aosta o lo sloveno in Friuli Venezia Giulia. Questo è il riflesso del fatto che in alcune aree le persone di lingue diverse si sono mescolate tra loro, indipendentemente dal frequente – e talvolta doloroso – spostamento dei confini nazionali.

La conseguente ricchezza di culture e idiomi è sottolineata dall’articolo 6 della Costituzione che recita: "La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche". Ed è anche per questo che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, durante la visita in Valle d'Aosta nel settembre 2024, ha pronunciato le seguenti parole: "Non si era, e non si è, stranieri a casa propria, quale fosse, e sia, la propria cultura, lingua, religione. Si trattava della diretta conseguenza dei principi fondamentali della nostra Costituzione".

Il fascismo, con la sua politica nazionalista, volle da subito soffocare la pluralità linguistica. La riforma Gentile abolì le scuole con lingua di insegnamento diversa dall'italiano e tanti altri atti giuridici successivi ebbero l’obiettivo di italianizzare forzatamente le zone culturalmente diversificate.

A causa del fascismo, nei primi anni dopo la Prima Guerra Mondiale, circa 100.000 cittadini italiani che usavano lo sloveno nella vita quotidiana emigrarono. Tra coloro che rimasero a Trieste, Gorizia, nella provincia di Udine e nelle zone che oggi non fanno più parte dell'Italia, si sviluppò, soprattutto tra i giovani, un’ardua resistenza definita da alcuni storici “il primo antifascismo in Europa”.

Il regime fascista ordinò quindi il confino per molti sloveni che andarono (assieme ai croati dell’Istria) a formare, nei luoghi di confino, le proprie mense o le proprie “università” clandestine alla pari dei comunisti, socialisti, federalisti, ecc.

È difficile stimare quanti sloveni furono imprigionati a Ponza, probabilmente decine o addirittura centinaia. Alcuni erano semplici patrioti sloveni senza una precisa collocazione politica, altri facevano parte di gruppi politici ben definiti. Un esempio è Giuseppe Srebrnič, un contadino di Gorizia, amico di Antonio Gramsci, che fu eletto nel 1924 alla Camera dei deputati con il Partito Comunista Italiano. Di lui, Sandro Pertini scrisse: "Uomo di fede, fiero, deciso a non scendere mai ad alcun compromesso. Dietro la scorza di un’apparente durezza celava un animo buono, dolce e generoso, pronto a porgere conforto e aiuto".

Spesso, i motivi per cui il regime fascista mandava gli sloveni a Ponza, visti oggi sembrano del tutto assurdi. Nel 1936, per esempio, Roman Pahor fu condannato, per la seconda volta, a 5 anni di confino per avere organizzato nella notte di Natale del 1935 un’azione capillare che prevedeva la distribuzione di pacchi regalo, contenenti vestiti e libri sloveni, ai bambini delle famiglie slovene povere attorno a Trieste. 

Per quell’atto “sovversivo” vennero condannati 18 sloveni, di cui alcuni furono mandati a Ponza. Oltre a Pahor anche Josip Dolenc, Alojz Ferluga e Stanko Sosič.


Sembrerà strano, eppure il periodo in cui Ponza fu luogo di confino fascista, può farci scoprire la varietà linguistica e culturale del nostro Paese. Si tratta di un aspetto non marginale nella storia e nel presente d’Italia, considerando che i padri costituenti ne tennero conto nella stesura dei principi fondamentali della Costituzione.

L'Italia è sempre stata un paese culturalmente e linguisticamente variegato, in cui molti dei suoi abitanti, oltre all'italiano e al dialetto, parlano anche altri idiomi. In alcune zone, perciò, è previsto per legge che la vita pubblica si svolga in due o più lingue. Nei consigli regionali e provinciali, nei comuni, nelle scuole, nella sanità, nelle associazioni e in altre istituzioni si usa oltre all'italiano, anche un'altra lingua, ad esempio il tedesco nella Provincia di Bolzano, il francese in Valle d’Aosta o lo sloveno in Friuli Venezia Giulia. Questo è il riflesso del fatto che in alcune aree le persone di lingue diverse si sono mescolate tra loro, indipendentemente dal frequente – e talvolta doloroso – spostamento dei confini nazionali.

La conseguente ricchezza di culture e idiomi è sottolineata dall’articolo 6 della Costituzione che recita: "La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche". Ed è anche per questo che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, durante la visita in Valle d'Aosta nel settembre 2024, ha pronunciato le seguenti parole: "Non si era, e non si è, stranieri a casa propria, quale fosse, e sia, la propria cultura, lingua, religione. Si trattava della diretta conseguenza dei principi fondamentali della nostra Costituzione".

Il fascismo, con la sua politica nazionalista, volle da subito soffocare la pluralità linguistica. La riforma Gentile abolì le scuole con lingua di insegnamento diversa dall'italiano e tanti altri atti giuridici successivi ebbero l’obiettivo di italianizzare forzatamente le zone culturalmente diversificate.

A causa del fascismo, nei primi anni dopo la Prima Guerra Mondiale, circa 100.000 cittadini italiani che usavano lo sloveno nella vita quotidiana emigrarono. Tra coloro che rimasero a Trieste, Gorizia, nella provincia di Udine e nelle zone che oggi non fanno più parte dell'Italia, si sviluppò, soprattutto tra i giovani, un’ardua resistenza definita da alcuni storici “il primo antifascismo in Europa”.

Il regime fascista ordinò quindi il confino per molti sloveni che andarono (assieme ai croati dell’Istria) a formare, nei luoghi di confino, le proprie mense o le proprie “università” clandestine alla pari dei comunisti, socialisti, federalisti, ecc.

È difficile stimare quanti sloveni furono imprigionati a Ponza, probabilmente decine o addirittura centinaia. Alcuni erano semplici patrioti sloveni senza una precisa collocazione politica, altri facevano parte di gruppi politici ben definiti. Un esempio è Giuseppe Srebrnič, un contadino di Gorizia, amico di Antonio Gramsci, che fu eletto nel 1924 alla Camera dei deputati con il Partito Comunista Italiano. Di lui, Sandro Pertini scrisse: "Uomo di fede, fiero, deciso a non scendere mai ad alcun compromesso. Dietro la scorza di un’apparente durezza celava un animo buono, dolce e generoso, pronto a porgere conforto e aiuto".

Spesso, i motivi per cui il regime fascista mandava gli sloveni a Ponza, visti oggi sembrano del tutto assurdi. Nel 1936, per esempio, Roman Pahor fu condannato, per la seconda volta, a 5 anni di confino per avere organizzato nella notte di Natale del 1935 un’azione capillare che prevedeva la distribuzione di pacchi regalo, contenenti vestiti e libri sloveni, ai bambini delle famiglie slovene povere attorno a Trieste. 

Per quell’atto “sovversivo” vennero condannati 18 sloveni, di cui alcuni furono mandati a Ponza. Oltre a Pahor anche Josip Dolenc, Alojz Ferluga e Stanko Sosič.


Sembrerà strano, eppure il periodo in cui Ponza fu luogo di confino fascista, può farci scoprire la varietà linguistica e culturale del nostro Paese. Si tratta di un aspetto non marginale nella storia e nel presente d’Italia, considerando che i padri costituenti ne tennero conto nella stesura dei principi fondamentali della Costituzione.

L'Italia è sempre stata un paese culturalmente e linguisticamente variegato, in cui molti dei suoi abitanti, oltre all'italiano e al dialetto, parlano anche altri idiomi. In alcune zone, perciò, è previsto per legge che la vita pubblica si svolga in due o più lingue. Nei consigli regionali e provinciali, nei comuni, nelle scuole, nella sanità, nelle associazioni e in altre istituzioni si usa oltre all'italiano, anche un'altra lingua, ad esempio il tedesco nella Provincia di Bolzano, il francese in Valle d’Aosta o lo sloveno in Friuli Venezia Giulia. Questo è il riflesso del fatto che in alcune aree le persone di lingue diverse si sono mescolate tra loro, indipendentemente dal frequente – e talvolta doloroso – spostamento dei confini nazionali.

La conseguente ricchezza di culture e idiomi è sottolineata dall’articolo 6 della Costituzione che recita: "La Repubblica tutela con apposite norme le minoranze linguistiche". Ed è anche per questo che il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, durante la visita in Valle d'Aosta nel settembre 2024, ha pronunciato le seguenti parole: "Non si era, e non si è, stranieri a casa propria, quale fosse, e sia, la propria cultura, lingua, religione. Si trattava della diretta conseguenza dei principi fondamentali della nostra Costituzione".

Il fascismo, con la sua politica nazionalista, volle da subito soffocare la pluralità linguistica. La riforma Gentile abolì le scuole con lingua di insegnamento diversa dall'italiano e tanti altri atti giuridici successivi ebbero l’obiettivo di italianizzare forzatamente le zone culturalmente diversificate.

A causa del fascismo, nei primi anni dopo la Prima Guerra Mondiale, circa 100.000 cittadini italiani che usavano lo sloveno nella vita quotidiana emigrarono. Tra coloro che rimasero a Trieste, Gorizia, nella provincia di Udine e nelle zone che oggi non fanno più parte dell'Italia, si sviluppò, soprattutto tra i giovani, un’ardua resistenza definita da alcuni storici “il primo antifascismo in Europa”.

Il regime fascista ordinò quindi il confino per molti sloveni che andarono (assieme ai croati dell’Istria) a formare, nei luoghi di confino, le proprie mense o le proprie “università” clandestine alla pari dei comunisti, socialisti, federalisti, ecc.

È difficile stimare quanti sloveni furono imprigionati a Ponza, probabilmente decine o addirittura centinaia. Alcuni erano semplici patrioti sloveni senza una precisa collocazione politica, altri facevano parte di gruppi politici ben definiti. Un esempio è Giuseppe Srebrnič, un contadino di Gorizia, amico di Antonio Gramsci, che fu eletto nel 1924 alla Camera dei deputati con il Partito Comunista Italiano. Di lui, Sandro Pertini scrisse: "Uomo di fede, fiero, deciso a non scendere mai ad alcun compromesso. Dietro la scorza di un’apparente durezza celava un animo buono, dolce e generoso, pronto a porgere conforto e aiuto".

Spesso, i motivi per cui il regime fascista mandava gli sloveni a Ponza, visti oggi sembrano del tutto assurdi. Nel 1936, per esempio, Roman Pahor fu condannato, per la seconda volta, a 5 anni di confino per avere organizzato nella notte di Natale del 1935 un’azione capillare che prevedeva la distribuzione di pacchi regalo, contenenti vestiti e libri sloveni, ai bambini delle famiglie slovene povere attorno a Trieste. 

Per quell’atto “sovversivo” vennero condannati 18 sloveni, di cui alcuni furono mandati a Ponza. Oltre a Pahor anche Josip Dolenc, Alojz Ferluga e Stanko Sosič.


Commenti