Roman Pahor, mio nonno

 di Peter Verc


Roman Pahor (1903-1951)

A casa nostra, a Trieste, la parola "Ponza" riecheggiava a intervalli irregolari. La nominavano nei loro discorsi la mamma, che purtroppo non c'è più, e mia zia, oggi arzilla signora di 89 anni. Parlavano del loro papà, Roman Pahor, morto già nel lontanto 1951 dopo una vita durata solo 48 anni, di cui troppi trascorsi in confino o dietro le sbarre. L'elenco dei suoi luoghi di detenzione comprende Trieste, Capodistria, Istonio (oggi Vasto), San Gimgnano, ma anche Ponza. O soprattutto Ponza. Sulla maggiore delle isole Pontine, infatti, mio nonno passò due periodi, dal gennaio del 1929 alla fine del 1932 e poi un anno tra le primavere del 1936 e 1937. Conserviamo a casa le sue lettere dell'epoca, comprese le missive con cui elencava alla ragazza, poi futura moglie Angela, quali pratiche doveva sbrigare affinché potesse raggiungere Ponza per contrarre il matrimonio. Si sposarono il 18 febbraio 1932 nella chiesa di Le Forna (almeno stando al certificato di matrimonio emesso dal Comune). Ecco perché Ponza ha per la nostra famiglia un sapore agrodolce. Fu luogo di grandi sofferenze per mio nonno, che sull'isola soffrì per via dell'ozio forzato e delle condizioni di vita, e, ammalandosi, venne pure condannato a tre mesi di carcere a Napoli per avere preso parte ad uno sciopero della fame. Ma fu anche il luogo dove i miei nonni si sposarono e vissero per la prima volta assieme. Ecco perché sia la mamma che la zia vollero visitare Ponza, per tornare lì dove si compì un'importante pagina famigliare; ma prima la malattia della mamma e poi l'avanzata età della zia hanno impedito il viaggio. L'incantesimo è stato quindi rotto da me, l'anno scorso, dopo aver raccolto in un libro scritto in sloveno dal titolo "Za vse, ne zase" (Per tutti, non per sé) la complicata e triste vicenda di Roman. La sua vita fu rovinata dal fascismo che condannò la popolazione di lingua slovena della Venezia Giulia all'assimilazione (per spiegare: Trieste fece parte fino alla fine della prima guerra mondiale dell'Impero austriaco e in città si parlava molte lingue, tra cui le principali erano proprio l'italiano e lo sloveno). Mio nonno si oppose con strumenti pacifici a quel piano di bonifica etnica, di cui in Italia si parla troppo poco. Distrubuì ai bambini sloveni, nella notte di Natale, libri di filastrocche nella loro madrelingua vietata, ma queste azioni di concorrenza alla Befana fascista erano ritenute criminali dal regime di allora. Roman subì quindi la ferocia mussoliniana pagando con troppe reclusioni il suo ideale di una Venezia Giulia dove ognuno potesse parlare la propria lingua in armonia con gli altri. Visitando Ponza ho cercato i luoghi dove visse mio nonno, ho cercato, originale alla mano, il luogo in cui si fotografò il 10 febbraio del 1929 spedendo il ritratto a casa, sono stato nella chiesa di Le Forna... Ho girato molto l'isola e vorrei tornarci. E vorrei, magari, che Ponza ponesse una targa o, chissà, un monumento ai tanti cittadini italiani di lingua slovena o croata che durante il fascismo furono mandati al confino rei di essersi opposti all'orribile tentativo fascista di eliminare dal suolo italiano la multiculturalità e la varietà linguistica. A casa, oltre alle lettere spedite da Ponza, ho anche diverse fotografie con dedica di altre persone mandate al confino: nomi famosi e meno famosi, comunisti, socialisti, repubblicani, liberali... Malgrado le circostanze, gli stenti, malgrado tutto, che bello doveva essere il legame tra i confinati di diverse città, diverse esperienze, diverse convinzioni politiche, diverse lingue. Mi piace pensare a Ponza come a un consesso plurale negli anni in cui democrazia e pluralismo erano chimere lontane.


Casa Bonifacio-Vitiello, in cui Roman Pahor alloggiò; successivamente si trasferì in una casa di via Carbonaia di proprietà di Alessandro Romano (nonno di Sandro, attivo nella Protezione civile)



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